IL RIDIMENSIONAMENTO (aka downshifting)
La prima impressione che quest'articolo suscita in una persona- non necessariamente ignorante- ma anche mediamente acculturata, è che sia davvero ben scritto e, apparentemente, esponga concetti che non fanno una grinza. Già: anche un individuo capace di leggere e interpretare un testo con ben più di tre righe (e pure abituato da anni a schivare trappole ideologiche e sofismi letterari di varia natura) potrebbe sentire la sua capacità di discernimento vacillare per un attimo davanti alle sirene motivazionali di tutto questo coaching da quattro soldi.
A me invece, tutta questa storia del downshifting ha fatto subito venire in mente delle scenette buffe. Mica tanto buffe, a dir la verità, e neanche tanto originali; però piuttosto efficaci. Efficaci nel senso che sono la perfetta esemplificazione delle mie personali obiezioni alla tesi dell'articolo.
E non mi è servita l'immaginazione, dato che basta guardarsi intorno e pensare a ciò che è oggi la realtà lavorativa italiana (cosa volete che ne sappia di come vive il lavoro, che so... un islandese- tanto per fare un esempio) e sottolineo REALTÁ, perché voglio riferirmi a ciò che il lavoro É per tante, troppe persone, e non cosa dovrebbe essere in teoria per gli economisti, i politici, i filosofi o la classe dirigente.
Provate ad immaginare con me, qui, ora, il downshifting (e se sei un precario, senza futuro e senza speranze, ti viene pure meglio):
break fumettistico con Dilbert, di Scott Adams. Vignettina a tema... |
Bravo. Bravo, Pavese! E soprattutto: un bravo a te, ignoto operaio/ciclista, che passi le giornate a scorrazzare verso nuovi orizzonti e ti becchi pure la tredicesima e la quattordicesima!.
altro break offerto sempre dal buon Dilbert. |
Ma sostituite l'operaio con qualsiasi altra categoria di lavoratore che lo stipendio se lo sudi per davvero e... dai, su, volevo solo far passare un concetto nella maniera più chiara possibile.
Perché l'articolo lascia sottintendere, in maniera piuttosto grossolana e superficiale (e probabilmente involontaria, pure) che, anche se non sei il figlio di qualche ministro o non hai ereditato la fabrichéta dal ricco papà, non solo puoi decidere se lavorare o meno, puoi pure decidere quante ore lavorare e quanto essere retribuito!.
E questa era la mia ultima obiezione, sbocciata insieme alla mia feroce incazzatura.
Sono Populista? Retorico? Scontato? Sicuramente. Ma soprattutto, ripeto, sono incazzato: Ho quasi quarant'anni, ho studiato, mi sono sbattuto come pochi al mondo e sempre per quattro soldi. Non ho fatto solo il fumettista o il grafico come molti pensano, in fabbrica ci sono stato, conosco la dura realtà dei Call Center e ho fatto anche diversi altri lavori. Ogni volta attestati di stima e pacche sulle spalle, ma ad ogni timida, piccolissima, educatissima, sporadicissima rivendicazione (se così possiamo chiamarla...) la risposta era sempre sul tenore: "Fly down ragazzo, c'è crisi, sei tanto bravo ma qui fuori c'è la fila, comportati bene, che ti sostituiamo quando ci pare". Insomma... è il mercato, baby. Bene. Ed altri che hanno studiato più di me? Che si sono presi una laurea in ingegneria, che hanno preso master e sborsato un sacco di soldi per corsi vari di perfezionamento? Ne ho visti molti lavorare a tempo determinato per 400/600 euro al mese per tre o sei mesi, costretti a spostarsi ovunque ed accettare qualsiasi condizione contrattuale (QUANDO e SE il contratto c'era) pur di lavorare, pur di fare esperienza, pur di portare a casa quei due soldi ed illudersi di essere indipendenti. Non ci si deve stupire se parecchi di loro alla fine emigrano. Spesso in Inghilterra, Germania o Francia per lavori più qualificati e meglio retribuiti (se paragonati agli standard italiani...) che però spesso comportano anche qualche problema d'integrazione con gli "indigeni", non sempre bendisposti verso gli italiani. Ma non divaghiamo.
Siamo incazzati? Siamo stressati? Certamente.
Ma una soluzione c'è, lo dice l'articolo! Quando le cose si mettono veramente male, dobbiamo solo ricordare che possiamo sceglierci qualsiasi lavoro ci piaccia, perché il lavoro è un hobby e non una necessità.
Se poi l'hobby non è più un hobby, ma diventa una cosa troppo impegnativa e stressante, niente paura, ci si ridimensiona, si fa il downshifting! E subito si torna in una dimensione della vita più libera ed umana. E non state sempre lì a pensare i soldi, che non fanno la felicità... cosa vuoi che contino i soldi, in una società capitalistica come la nostra?.
Ok, ormai avrete capito quanto quest'articolo mi abbia fatto arrabbiare. Il vero problema, però, è che non è neanche l'unico o il peggiore nel suo genere. Siamo circondati da cose così. Vengono dalla tv, dal web, dalla radio, dai giornali, dalle pubblicità, dagli slogan, dai fottuti meme di FB, dalle frasi motivazionali e/o autocompiacenti pescate a caso nella rete per finire nelle foto di di tizie più o meno avvenenti e più o meno (s)vestite, che le sfoggiano sotto il naso del mondo come una specie di prestigiosa e ambita patente di rispettabilità.
Condividere contenuti per mascherare la totale mancanza di contenuti: l'incubo orwelliano si è pienamente avverato ma non ce ne siamo ancora accorti, perché ci siamo troppo dentro.
La drammatica semplificazione della realtà, la cultura-discount e la psicologia spicciola in formato reader's digest, non sono altro che alcuni dei mezzi in mano al Vero Potere per creare sudditanza psicologica e ottenebrare la capacità di giudizio delle grandi masse.
Come con un sedativo somministrato cucchiaiata dopo cucchiaiata, giorno dopo giorno, siamo scivolati nel sonno senza neanche accorgercene; e adesso è rimasto solo lo stordimento e il torpore.
Chi nel frattempo si è accorto che la civiltà occidentale è giunta al capolinea e che quella che una volta era la medio borghesia ha partorito una generazione di schiavi e di falliti senza futuro (nel senso letterale del termine: gli italiani -perdonatemi l'ovvietà- non fanno più figli o al massimo fanno UN solo figlio) guarda la propria vita scorrere con inerzia, con rassegnata apatia, come se non gli appartenesse. Di tanto in tanto si incazza un po', borbotta, urla alla televisione, ma poi torna come prima. Prigioniero ormai della precarietà esistenziale nella quale è immerso, risucchiato dal vortice del lavoro (se ce l'ha) e dalle incombenze quotidiane, non è più neanche in grado di concepire progetti a medio o lungo temine: il suo futuro più remoto arriva massimo al dopodomani. Figuriamoci quindi se può far seguire un'azione eversiva di qualsiasi tipo alla sua tiepida incazzatura.
E tutti gli altri, invece? Continuano a guardare il grande fratello, si infervorano durante le partite di calcio, vanno alla sagra della salsiccia, continuano a credere nelle promesse del politico di turno, comprano smartphone sempre più potenti, chattano ininterrottamente, ridono coi comici di Zelig, vanno all'estero per fare i turisti a Sharm El Sheikh (o al massimo in Grecia), scattano vagonate di foto a prescindere da dove sono e cosa fanno (attività che nuoce al cervello, perché indebolisce la memoria e i legami emotivi sviluppati nei luoghi che visitano)... eccetera eccetera eccetera.
Ma di tutto questo ne parlerò in maniera un po' più approfondita in un altro post.
Concludo dicendo: ci credo che la psicologa di Confidenze sorride, come una vecchia zia bonaria, nel riquadro della sua sua rubrica. Con un'umanità ridotta ad un agglomerato di minus habens, pronti a ricevere degli imprescindibili cestini di saggezza ogni giovedì, ne ha ha davvero ben donde.
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note:
¹ Cesare Pavese, lettera a Giulio Einaudi:
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